Domenica 19 ottobre 2008, Giornata mondiale delle missioni cattoliche, nella Basilica di Lisieux, i coniugi Luigi Martin e Zelia Guérin, genitori di S. Teresa di Gesù Bambino, sono stati dichiarati beati.
Come il Concilio Vaticano II ha spiegato, attingendo alla Rivelazione e alla Tradizione viva della Chiesa, “tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (Lumen gentium, 40), dunque
“E’ ora di riproporre a tutti, con convinzione, questa misura alta della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie deve portare in questa direzione” (Giovanni Paolo II, NMI, 31). S. Teresa di Gesù Bambino, già collocata in questo fiume di grazia e di rivelazione, così parlava, in “Storia di un’anima”, della santità dei suoi genitori, lasciandone trasparire la bellezza della relazione e del loro percorso di fede: “Il Signore mi ha dato un padre e una madre più degni del cielo che della terra. Ho avuto la felicità di appartenere a genitori senza eguali”. “Dio mi ha fatto nascere in una terra santa…”.
Certo, non siamo abituati a pensare, nonostante il valore che ha il sacramento del matrimonio tra i cristiani, alla santità di una coppia. La nostra esperienza ci riporta a coniugare la santità solo al singolare, ad orientarla verso l’individuo. Solo Giovanni Paolo II osò andare oltre gli schemi, annoverando tra i beati i coniugi Luigi Beltrame Quattrocchi e Maria Corsini (21 ottobre 2001). Ora, Benedetto XVI, ha deciso di mettere accanto a loro i coniugi Luigi e Zelia Martin. Una coppia cristiana proposta per la beatificazione al fine di mostrare, ai padri e alle madri di famiglia di tutto il mondo, quale grande vocazione è la vita coniugale, come avanzare sulla via della santità trascinando con sé tutta la famiglia.
Per quelli che guardano settorialmente alle indicazioni ecclesiastiche che regolamentano le cause dei Santi, la motivazione che porta alla beatificazione i coniugi Martin è la guarigione “miracolosa” di Pietro Schilirò, un bambino di Monza, affetto da
una grave malformazione ai polmoni. Volendo, però, allargare il senso del pronunciamento della Chiesa, scandagliandone il più profondo significato teologico ed ecclesiale, siamo obbligati ad accendere i riflettori sulla vita dei coniugi Martin, perché è
in questa esperienza umana, vero spazio storico-esistenziale, che la grazia si mostra in tutto il suo splendore, lasciando intravedere qualcosa della santità di Dio e della bellezza dell’umano. Lasciamo allora emergere maggiormente la bellezza della vita dei santi, più che la molteplicità dei miracoli. Quest’ultimi, infatti, non appartengono in senso stretto a loro, ma a Dio e alla sua grazia, rappresentano un’ulteriore modalità di continuare a stare in mezzo a noi, sono i segni della sua “debolezza” più che della sua “onnipotenza” perché, al contrario di quanto abitualmente pensiamo, svelano solo qualcosa dell’infinita misericordia di Dio, dicono la sua incapacità a fare da spettatore davanti al dolore e al grido dell’umanità.
Cosa ci affascina, ancora, della vita della coppia Martin, a 150 anni dal loro matrimonio (1858- 2008)? Oggi, quale messaggio lancia questa famiglia alla Chiesa e alla società?
C’è una bellezza che promana dalla loro intraprendenza lavorativa, imprenditoriale: Luigi Martin, come orologiaio e gioielliere; Zelia Guerin, come ricamatrice. Quest’ultima, poi, sorprende perché, a soli ventidue anni, fu in grado di
allestire ad Alençon un laboratorio di ricamo.
Anche loro alle prese con un lavoro da inventare e tutelare, sapendo di dover quotidianamente rischiare, puntando sulla cura della bellezza e della fantasia, lavorando con pazienza ed onestà, virtù queste che ogni laboratorio artigianale, della piccola
impresa, diremmo oggi, dovrebbe saper coltivare per garantirsi uno spazio di mercato etutelare l’occupazione ai propri dipendenti.
Appassiona il loro modo di vivere la relazione al profitto, ai poveri e ai dipendenti, sicuramente in controtendenza rispetto all’etica borghese e massonica del loro tempo e del loro ambiente. Luigi e Zelia impiegarono, insieme alle cinque figlie,
buona parte del loro tempo e del loro denaro, per aiutare chi era nel bisogno. La loro casa fu spazio di apertura e di accoglienza per chiunque bussasse. Il cuore di questi sposi era caldo, spazioso e pronto al dono di sé. La figlia Celina, al Carmelo Suor Geneviève, dirà a proposito dell’amore del papà e della mamma verso i poveri: “Se in casa nostra regnava l’economia, quando si trattava di soccorrere i poveri vi era la prodigalità. Li si preveniva, li si cercava, quando non si insisteva per farli entrare in casa, dove erano nutriti, riforniti di viveri, vestiti, esortati al bene”. E a proposito del papà aggiunse: “Si preoccupava di trovar loro lavoro secondo la loro condizione, li faceva ricoverare in ospedale quando c’era bisogno, o procurava loro una soluzione onorevole secondo i loro casi” (Deposizione resa da Suor Geneviève Martin al processo diocesano per i suoi genitori).
Di Zelia, in particolare, si evidenzia l’atteggiamento amorevole verso le operaie del suo laboratorio, l’attenzione che riservava alle operaie malate, andando a visitarle la domenica pomeriggio; la loro sensibilità esigeva che si pagassero subito le operaie, tanto che non rimandarono la paga neppure il giorno in cui persero un bambino.
I coniugi Martin, ci ricordano che c’è un’etica che deve attraversare la vita degli imprenditori, a qualunque livello esercitino la loro presenza sociale, un’etica in grado di manifestare maggiormente il rapporto tra impresa e bene comune, rimettendo al centro il valore della persona umana, valore mai negoziabile e non subalterno al profitto.
Incoraggia la luminosa testimonianza apostolica di Zelia e Luigi, tanto che ricorda, idealmente, la storia apostolica di Priscilla ed Aquila (At. 18, 2.18.26; Rm 16, 3; 1Cor. 16, 19; 2Tm 4, 19).
I coniugi Martin sono stati impegnati, nella consapevolezza della loro condizione di laici, nell’apostolato dell’evangelizzazione. Lo hanno vissuto in modo serio e convinto per tutto l’arco della loro esistenza, dentro e fuori le mura domestiche, attraverso una sponsalità fascinosa, approfondendo la loro fede, curando la vita sacramentale, la vita di preghiera, l’accoglienza e la cura dei poveri, la formazione dei figli. Dei coniugi Martin si può dire che la loro testimonianza apostolica passò attraverso la bellezza della loro vita, il fascino dei loro sentimenti, la trasparenza del loro amore, attraverso quella capacità di dedicarsi tempo.
L’impegno apostolico ed ecclesiale dei Martin ricorda che “la futura evangelizzazione dipende, in gran parte, dalla chiesa domestica” (Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, n. 52), ha il sapore delle tenerezza. Infatti, nel volto dell’uomo e della donna che si amano traspare l’immagine più bella di Dio. Gli sposi sono parola e immagine, sacramento efficace che lascia trasparire qualcosa del Mistero, che è nuziale, e narrano visibilmente, attraverso la storia di ogni giorno, l’amore di Cristo sposo, ne traducono lo slancio innamorato verso la sua sposa, la Chiesa, l’umanità intera.
Interpella il loro modo di vivere il ruolo ed il rischio educativo. Entrambi furono grandi lavoratori, ma non delegarono mai la formazione dei figli ad altri. Furono in grado di conciliare le esigenze delle due attività commerciali con quelle della famiglia, preparando un contesto educativo adatto a custodire la crescita umana e spirituale dei loro figli, curando le inclinazioni di ciascuno. I figli furono per essi, quotidianamente e totalmente, l’attenzione educativa prioritaria: “Non vivevamo più che per loro, questa era la nostra felicità, e non l’abbiamo mai trovata se non in loro” (Lettera di Zelia alla figlia Paolina, 4 marzo 1877).
I figli furono per essi il luogo della felicità e del dolore, riconosciuti nella loro ultima appartenenza a Dio e amati per il loro ultimo destino. Zelia fu una donna di rara energia che, sebbene immersa nel lavoro, fu alle prese con un ménage familiare impegnativo, nove gravidanze in tredici anni, ma questo non le impedì di ritenere fissa l’unica preoccupazione: la santità dei suoi figli e la santità della sua famiglia.
E’ stupefacente constatare come molti teologi, psicologi, romanzieri si siano avvicinati a questa famiglia di Lisieux con interessi e sensibilità diverse, tentando di dire una parola ulteriore. Non sono mancate analisi impietose, senza pudore, fino a quando la Chiesa ha ufficialmente riconosciuto l’eroicità delle virtù della famiglia Martin, ricordando che questi coniugi hanno vissuto la loro vita di relazione e di fede con una generosità profonda e totale, da “testimoni”.
Oggi, quando non è più scontato che la famiglia educhi cristianamente con la sua vita, mentre la Chiesa si domanda come valorizzare la coppia e il matrimonio, i coniugi Martin ci ricordano l’essenziale che deve caratterizzare l’azione educativa: la relazione. Infatti, la nuova emergenza è il ruolo educativo perso o almeno demandato, in gran parte, dalla coppia genitoriale. Questo ruolo è, per tanti, un’impresa quasi impossibile per la complessità del percorso educativo e il senso di impotenza che si avverte contro il potere invasivo dei media e dei modelli culturali negativi. Nasce così nei genitori come una rinuncia all’educazione. Pertanto, sarà importante aiutarli ad affrontare
con maggiore fiducia, gioia e corresponsabilità l’avventura educativa come esperienza di “relazione, di vicinanza” (Benedetto XVI), facendo emergere che educare è collaborare alla gioia dei figli e alla costruzione della “civiltà dell’amore”.
Stupisce il modo di vivere la fedeltà alla grazia. Nella famiglia Martin, la vita di ogni giorno è intessuta di grazia, “tutto è grazia” (Bernanos, Diario di un curato di campagna), perché nulla è neutro, ma ogni avvenimento ha a che fare con l’azione di Dio che accompagna, anche attraverso percorsi irti di difficoltà, l’esistenza di entrambi e dei loro figli. La grazia, per i coniugi Luigi e Zelia Martin, è Dio che aderisce alla vita, è la prossimità di Dio alla loro storia, è l’esperienza di eccedenza che provoca una forma di trascendimento, dove nessuno resta quello che era prima, perché viene immesso in un clima di stupore, in una relazione nella quale si sente amato, poi sollecitato a rispondere con fede, fiducia, abbandono. In questo senso grazia è tutta l’attenzione preveniente ed amorosa di Dio nella loro vita e la vita del mondo, ma è anche la loro generosa risposta vitale; è l’atto di Dio che trasgredisce, in Gesù Cristo, per poterli raggiungere nella loro
condizione e percezione, nel loro stesso limite, che è anche spazio di invocazione (Berdiaev N.). In questo senso la grazia è un’esperienza di frontiera, dove la sponda di Dio si espande sull’effimero, entra nel tempo e nella storia degli uomini e, successivamente, lascia che l’umano trasbordi sull’eterno. E’ un interscambio, riprendendo un vocabolo caro ai Padri della Chiesa.
I riflessi di questa grazia, diffusa nel quotidiano, sono rintracciabili nella partecipazione quotidiana dei Martin alla S. Messa, nella fedeltà alla preghiera, nella dedizione al lavoro e ai doveri familiari, elementi questi che rappresentano come la struttura portante della loro spiritualità sponsale.
“Non avere paura, il buon Dio è con noi!”. In questo motivo conduttore di Zelia, ritroviamo il senso vivo della sua esperienza mistica, la “traccia” della compagnia di Dio nelle gioie e nelle sofferenze della sua vita familiare. Tutta la vita di Zelia Guerin è stata un’esistenza solcata dalla grazia, abbandonata a Dio, e per questo, teologale.
Quanto alla vita di Luigi Martin, possiamo dire che è stata la figlia, Teresa di Gesù Bambino, a suggerirci le coordinate della sua vita teologale descrivendolo come “il servitore fedele” che ha “estasiato il cielo per la sua fedeltà” (Lettera 142), che è stata perfetta (Lettera 148). Quest’uomo buono ha estasiato il cielo, come dice Teresa, ma ha colmato anche di stupore il cuore della sua sposa, dei suoi figli, delle persone che lo hanno frequentato. Credo che non ci sia definizione più bella e sintetica di quello che può fare la grazia quando arriva a svelare pienamente l’uomo a se stesso (Gaudium et spes, 22). La grazia gli aveva dato un vivo senso del limite e della fragilità delle cose umane, una spiccata attitudine per la meditazione e la preghiera; la grazia fece di lui un
sognatore, amante della natura e della pesca, delle buone letture. Non un uomo “debole”, come lo giudicarono alcuni, perché non si oppose alla vocazione religiosa delle sue cinque figlie, ma un uomo vinto dalla grazia, come Paolo di Tarso, come Agostino, perché aveva compreso l’infinito che abita ogni persona. Con la sua vita, trasfigurata dalla grazia, Luigi Martin, non solo custodì e promosse quell’infinito nella sua vita e nella vita della sua famiglia, ma arrivò a mostrare qualcosa del volto misericordioso di Dio, l’infinita tenerezza del Padre.
A noi post-moderni, abituati a parlare male della famiglia, annotando lacerazioni e assenze, limiti e problemi, i coniugi Martin ci invitano ad individuare gli spazi della grazia che abitano in ogni esperienza familiare. Questa, infatti, rappresenta una stupenda risorsa per l’umanità: parla di amore, di vita, di solidarietà, è una buona notizia per il terzo millennio, perché porta in se la “grammatica fondamentale dell’umana convivenza” (Giovanni Paolo II). La famiglia suggerisce che il mondo non è una cosa brutta, ma bellissima poiché in esso si dicono ancora parole di tenerezza, si compiono gesti di fraternità, si sogna comunione, si ha premura per la vita. La famiglia permette,
inoltre, di realizzare nel soprannaturale quanto vissuto nel naturale, perché è “agenzia periferica della SS.ma Trinità” (don Tonino Bello), in ultima analisi, come affermava Von Balthasar, “dobbiamo a Luigi e Zelia Martin la dottrina della piccola via, dell’infanzia spirituale, perché furono loro a rendere vivo e palpitante nel cuore di Teresa di Gesù Bambino il Dio che è più del padre e della madre” (Sorelle nello Spirito: Teresa di Lisieux e Elisabetta di Digione, Ed. Jaka Book, Milano 1991). Tutto questo è dono di grazia che promana dal sacramento del matrimonio e si fa spiritualità sponsale.
Conforta la normalità della loro vita. I coniugi Luigi e Zelia Martin, al di là delle apparenze “borghesi”, si contraddistinsero per uno stile di vita normale. La normalità segnò la prima fase della loro esistenza, non risparmiando loro nulla.
Luigi nacque a Bordeaux il 22 agosto 1823 e fu costretto a seguire l’itineranza del padre, che era un militare e che una volta in congedo si stabilì ad Alençon. A ventidue anni decise che era arrivato il tempo di prendere il largo. Tentò di consacrarsi al Signore ma non venne accettato perché non conosceva il latino. Trascorse alcuni anni in diverse città della Francia dove imparò l’arte dell’orologiaio. Nel 1850 tornò ad Alençon e aprì un laboratorio di orologeria e gioielleria. A quasi trentacinque anni era ancora celibe, però bastarono solo tre mesi, dopo aver incontrato Zelia Guérin, per arrivare al matrimonio.
Il percorso di Zelia fu altrettanto impervio. Anche lei figlia di un militare, otto anni più piccola di Luigi, nacque il 23 dicembre 1831. La sua infanzia fu segnata da malattie e da difficoltà familiari. Il padre aveva un carattere forte e deciso, la madre era incapace di essere un’educatrice. Sognò di farsi religiosa, ma la superiora dell’ospedale di Alençon le disse di non farlo. A questo punto Zelia si dedicò, con tutta la sua passione, al lavoro di ricamatrice e a soli ventidue anni fu in grado di aprire un laboratorio dei famosi merletti di Alençon. Nel 1865, Zelia sintetizzerà così, al fratello Isidoro, la sua esperienza in famiglia: “la mia infanzia e la mia giovinezza sono state tristi come un manto funereo, perché, se mia madre ti viziava, con me, lo sai bene, è stata invece troppo severa; pur così buona, non sapeva capirmi, e io per questo ho sofferto moltissimo”.
Questa normalità, segnata, come la vita di tanti di noi, da luci ed ombre,contrassegnò anche la loro storia di amore e l’esperienza della sofferenza. Si incontrarono quando Luigi aveva ormai trentacinque anni e Zelia ventisette. Si sposarono il 12 luglio 1858, a mezzanotte, alla presenza di qualche parente ed amico intimo, nella semplicità assoluta. Pensavano di avere tanti bambini, ma vissero un momento difficile (Zelia, Lettera alla figlia Paolina, del 4 marzo 1877) che si risolse solo con l’intervento del loro confessore, il quale fece capire a Zelia che il dono del sacramento matrimoniale si estendeva anche alla santificazione della sessualità.
Dalla loro storia di amore, vissuta all’unisono, fino a quella profondità della comunione che è dono reciproco dell’essere, ma anche esperienza di un’inappagabile amore ed esperienza di “un’ultima solitudine nell’anima che non può mai essere riempita dalle creature, neppure dalle più amate” (Sicari A., Ritratti di santi, Jaca Book, Milano 1996), ebbero nove figli. Di questi, quattro morirono nei primi anni di vita.
I coniugi Martin sono esemplari anche per il loro modo di vivere la nascita e la morte dei loro figli, le loro malattie. L’epistolario di Zelia ci consegna pagine di tenerezza e di sofferenza intessute da una profonda attitudine teologale. Basti ricordare l’esperienza della morte della piccola Elena –aveva poco più di cinque anni quando morì – dove la mamma, dopo la narrazione della malattia e il dolore per non aver compreso il suo stato, conclude: “Insieme – si riferisce al marito Luigi – l’abbiamo offerta al Signore” (Lettera del 24 febbraio 1870).
I Martin, questa esperienza estrema, la vissero per ben quattro volte. Possiamo dire che conobbero e condivisero questo dramma che sconvolge la vita di tante famiglie, tuttavia quello che li rende esemplari non è la quantità del dolore condiviso, ma la loro “offerta”. Si rivelarono capaci, per grazia e fede, di riconoscere, sebbene lacerati dal dolore, che si stava consumando, in quell’evento di morte, un mistero, quello della vita data da Dio e riconsegnata nelle sue mani di tenerezza. C’è, in questa consegna, tutta la verginità di questa coppia di sposi. Non trattengono nulla di quanto era stato loro dato nella gratuità, riconsegnano tutto, sebbene trapassati nel cuore dal dolore, con la sola certezza di continuare a credere nella continuità della vita donata ai figli, custodendo la memoria del rapporto con loro, aspettandoli ancora: “Da quando ho perduto quella bambina provo un ardente desiderio di rivederla… Non c’è un minuto al giorno in cui non pensi a lei” (Zelia, Lettera del 27 marzo 1870).
Quanto bisogno hanno le nostre famiglie di riconciliarsi con il mistero della vita e della morte, forse recuperando la testimonianza della serietà attraverso cui accogliere la vita e la fede, la morte e la speranza, sapendo vedere, come la famiglia Martin, oltre la “notte”.
La bellezza della famiglia Martin non è solo questa, ma il già detto è sufficiente per farci intuire che ha senso, rivisitando la loro vita, proclamarli beati. La loro testimonianza potrà offrire alla costruzione della società l’autentico collante di uno Stato a misura della persona umana e alla edificazione della Chiesa l’esperienza più significativa di un intreccio di generazioni che si ritrovano nella comunione.
La famiglia Martin ricorda che la comunità coniugale e familiare, anche quando è segnata da opacità e da lacerazioni, custodisce, nel suo DNA, la bella notizia dell’amore e della vita. Senza famiglie serene, convinte della necessità di testimoniare l’amore in ogni situazione sociale, la società si sfalda e si impoverisce. Solo la qualità dell’alleanza coniugale garantisce ad un popolo di guardare con serenità al proprio futuro.
P. Luigi Gaetani Carmelitano Scalzo